2023 – Omelia in occasione della morte di Giacomo Pala
27 maggio 2023
Dagli Atti degli Apostoli
Arrivati a Roma, fu concesso a Paolo di abitare per conto suo con un soldato di guardia.
Dopo tre giorni, egli fece chiamare i notabili dei Giudei e, quando giunsero, disse loro: «Fratelli, senza aver fatto nulla contro il mio popolo o contro le usanze dei padri, sono stato arrestato a Gerusalemme e consegnato nelle mani dei Romani. Questi, dopo avermi interrogato, volevano rimettermi in libertà, non avendo trovato in me alcuna colpa degna di morte. Ma poiché i Giudei si opponevano, sono stato costretto ad appellarmi a Cesare, senza intendere, con questo, muovere accuse contro la mia gente. Ecco perché vi ho chiamati: per vedervi e parlarvi, poiché è a causa della speranza d’Israele che io sono legato da questa catena».
Paolo trascorse due anni interi nella casa che aveva preso in affitto e accoglieva tutti quelli che venivano da lui, annunciando il regno di Dio e insegnando le cose riguardanti il Signore Gesù Cristo, con tutta franchezza e senza impedimento.
La Parola di Dio sempre ci sorprende e sempre interpreta ogni passaggio esistenziale della nostra vicenda terrena: la nascita, la crescita, la giovinezza, le scelte della vita adulta, gli affetti, le relazioni, le professioni abbracciate, le gioie, i successi, i fallimenti, quanto siamo stati capaci di realizzare, quanto non siamo riusciti, la vecchiaia, la morte e la vocazione all’eternità… tutto assume, tutto riassume, tutto rielabora e restituisce per una maggiore comprensione.
Non è certamente frutto della casualità se oggi, durante la celebrazione esequiale che stiamo vivendo per suffragare l’anima di zio Giacomo, è capitata una lettura che ci parla di San Paolo, prigioniero a Roma in regime di arresti domiciliari, all’interno di un contesto giudiziario – direi di procedimento processuale vero e proprio – nel quale, l’illustre imputato e quasi condannato, si trova a scontare una pena transitoria in attesa di giudizio definitivo, riservato questo all’Imperatore, com’era da attendersi per un cittadino romano, seppure di stirpe semitica.
Certo, si tratta di un tempo, di un contesto molto diversi dai nostri, di un sistema di leggi e norme che rispecchiavano un orizzonte valoriale distante dal nostro, ma
è inevitabile cogliere un parallelismo tra un antico e (in questo caso) stolto processo e il funerale di un giudice antico e sapiente.
E se molti, ai tempi di San Paolo, pensavano che la giustizia dovesse applicarsi per tacitare qualsiasi novità come il Cristianesimo e soffocare qualsiasi dissenso civile quale quello dei cristiani che, seppure obbedienti alle leggi dello Stato, dello Stato non ne facevano un dio, oggi forse alcuni interpretano la giustizia come strumento di offesa e terrore, rendendo il peggior servizio che si possa rendere a questa antica virtù dell’unicuique suum tribuere, alterum non laedere, honeste vivere: dare a ciascuno il suo, non far del male a nessuno, vivere rettamente (cfr. Ulpiano).
La giustizia, una virtù, un valore, un’attitudine che tutti riguarda, a cui tutti facciamo appello, che tutti dobbiamo perseguire, custodire e mettere in pratica, nelle piccole azioni quotidiane e nei maggiori incroci della nostra vita e della vita familiare, comunitaria e sociale.
Zio Giacomo era un uomo di giustizia, ed era anche un uomo giusto. Alle volte le cose non coincidono. Anche Gesù nel Vangelo ci parla di un giudice malvagio che si rifiutava di rendere giustizia ad una povera vedova angariata, e si decide a muoversi solo per la grande insistenza di questa poveretta e per non avere più seccature di sorta. Segno evidente che – purtroppo – sebbene la giustizia pretenda servitori all’altezza, alle volte non ottiene di lei amministratori capaci e limpidi… non avremmo altrimenti clamorosi errori giudiziari, magistrati sedotti da correntismo politico o ideologico o mediatico al punto da mettere a rischio l’imparzialità del giudizio, interpretazioni sofistiche delle leggi e delle norme che, certamente perfettibili, devono e possono essere applicate secondo l’ermeneutica della realtà, dell’equilibrio, del rispetto dell’individuo, del perseguimento di un bene integrale, pacifico e pacificato, offeso sì dallo squilibrio di un torto, di un male, di un reato, ma aperto sempre ad una prospettiva di redenzione, anche se quest’ultima fosse remota.
Lu Prettori, era così. Amava incontrare le persone in contesa, invitava le parti ad un confronto, spingeva alla riconciliazione, evitava di mandare a processo, confidando nel buon senso della gente, nella possibilità di un accordo ragionevole e giusto secondo il possibile dove, seppure non nei termini sperati, nessuno perde, e quindi tutti vincono… in primis l’umanità che sempre deve prevalere sul disaccordo, sul rancore, sugli interessi di parte. E la conciliazione diveniva anche viatico di riconciliazione, di recupero di rapporti umani, di comprensione, di perdono o quanto meno di desistenza dal male, nell’assoluto rispetto del conciliatore, riconosciuto non solo per la competenza giuridica ma soprattutto per la statura morale.
E se alcune cose non le facciamo per assoluta convinzione personale, le facciamo per riguardo e amore di chi riconosciamo autorevole, veritiero e dedicato al bene.
Era l’antica scuola giuridica di “li rasgjunanti”, uomini saggi e rispettati dalle comunità che avevano il compito di comporre le liti, di riportare armonia e legalità in una società aspra e piuttosto sbrigativa nei modi e nelle soluzioni, quale era la Gallura di qualche secolo fa. Zio Giacomo, studioso di storia, di letteratura, di poesia e di cultura gallurese, aveva mutuato questa lezione e la trasfondeva nell’amministrazione di una giustizia esigente ma umana, rigorosa ma familiare, sollecita e collaborativa nei confronti di tutti gli operatori del sistema: colleghi magistrati, avvocati, personale del tribunale, forze dell’ordine, ferma nei principi ma attenta al vissuto delle persone e al mutare dei tempi e della sensibilità culturale della contemporaneità.
Posso raccontare un piccolo episodio. Siamo nei primi anni ’70 del secolo passato. Una donna, una turista in vacanza presso le nostre località marine, aveva scelto di prendere il sole in topless. Fu denunciata per atti osceni in luogo pubblico. Si andò a processo. Un capo di imputazione piuttosto serio. Le leggi dei tempi e la loro interpretazione restrittiva secondo un’antica concezione della pubblica decenza, cozzavano contro una società che si emancipava sempre di più, al seguito della rivoluzione sessuale, del nuovo ruolo della donna, di un maggiore desiderio di espressione e di libertà, anche fisica, nei luoghi – almeno – di svago e di ricreazione come la spiaggia, il mare. Un caso del genere, oggi, farebbe ridere. Allora no.
Il Pretore aveva necessità di un’interpretazione del fatto, non solo secondo la legge, ma secondo anche il clima ed il sentire di una società in piena trasformazione.
Fece una riunione con quelli che lui reputava i più attendibili esperti non solo della morale, ma del senso morale della gente, cosa diversa. Invitò il Vescovo di allora, alcuni sacerdoti amici, specialmente i parroci delle zone costiere e turistiche (spero non perché fossero esperti di topless!) e chiese un parere… la signora fu assolta in tribunale e nella coscienza comune.
La giustizia, per quanto nobile, non era certo l’unico amore del Pretore.
C’è la famiglia. Ultimamente molto, troppo provata. Il suo matrimonio con zia Paoletta, la gioia dei figli, di Francesco e di Antonio, delle nuore, dei nipoti… ma anche il dolore della morte della sposa, la perdita di Antonio, la cui assenza fisica, provvidenzialmente, non è stato in grado di percepire e che oggi abbraccia nell’eternità e per l’eternità. Il dolore di una giustizia violentata e violenta, di cui ancora si attende un esito giusto, liberatorio e rispettoso… quel rispetto che è mancato nei modi della sua iniziale attuazione, infliggendo al cuore di un padre il dolore per l’umiliazione di un figlio e di altre numerose persone. Dolori che il cuore e la mente di un gentiluomo di campagna non possono reggere a lungo.
Il rapporto con il fratello, mio padre, sempre affettuoso, sempre competitivo… al punto che il piccolo diceva del grande, prendendolo in giro e ritenendolo più fortunato di lui… “Puru li caldicci illa Turritta crescini senza spini”.
La campagna, le tradizioni, le amicizie, la compagnia, la goliardia, la poesia, il buon cibo, l’ironia e la capacità di narrare le situazioni più improbabili, la disinvoltura nel trattare il Presidente della corte di Cassazione come il pastore, e soprattutto il pastore come il Presidente della corte di Cassazione, ne hanno fatto un personaggio amato e cercato, rispettato e stimato, quasi un’icona della galluresità e della Gallura… quella nostra Gallura, la più vera, fatta di gente laboriosa, tradizioni avite, feste campestri, profumo di mirto e di cisto, di graniti impenetrabili, di mare cristallino, di strette di mano, di battute sagaci, di rivendicazioni e conquiste popolari come l’autonomia comunale di Palau e di S. Antonio di Gallura, di fede semplice e robusta, a volte nodosa ma mai banale come il ginepro, come il ginepro del nostro Crocifisso.
Adesso lo affidiamo alla misericordia del Signore, che tenga conto della sofferenza patita, perdoni i limiti di un uomo e cristiano vero ma certamente non perfetto, e dia tanta consolazione a Francesco nelle cui mani è spirato, a tutti i familiari e assistenti, agli amici, alle persone – e sono tante – con cui ha condiviso questa stupenda, e a volte difficile, imprevedibile vita umana…
Ci cunnoschjmi illa gloria!
don Paolo Pala