2020 – Una riflessione (aperta) sulle Comunità presbiterali

Una riflessione (aperta) sulle Comunità presbiterali…

  1. La storia c’insegna che le Comunità presbiterali diocesane non sono un’invenzione moderna o contemporanea, ma già nel passato sono esistite differenti forme di vita comunitaria tra presbiteri in diversi contesti sociali e religiosi. Possiamo citare la comunità sacerdotale voluta da Sant’Eusebio di Vercelli (IV secolo), menzionata qualche anno orsono da Papa Benedetto in occasione di un’udienza generale del mercoledì.[1] In tempi più recenti a Torino si distingue il benemerito convitto San Francesco diretto per lunghi anni da San Giuseppe Cafasso (1849-1860) alla cui scuola si perfezionano pastoralmente San Giovanni Bosco e il Beato Giuseppe Allamano, giusto per segnalare due illustri ospiti. Attualmente sono numerose le comunità di sacerdoti diocesani declinate in svariate forme di convivenza o fraternità, alcune risalgono a qualche decennio orsono altre di recente inizio.
  2. Esistono molteplici indicazioni magisteriali sull’opportunità di incoraggiare, avviare e sostenere le comunità presbiterali tra sacerdoti diocesani. Possiamo ricordare quanto raccomanda il Direttorio per la vita ed il ministero dei presbiteri (Congregazione per il Clero, 2013) ai numeri 37-40[2] che – a loro volta – sono una sintesi di precedenti ed autorevoli documenti quali Costituzioni e Decreti conciliari (LG; SC, CD; PO), Esortazioni postsinodali (PDV), Encicliche (SaCae), Discorsi dei Pontefici. Anche il Codice si esprime in merito e lo fa piuttosto chiaramente: “Si raccomanda vivamente ai chierici di praticare una consuetudine di vita comune; dove essa è attuata, per quanto è possibile, si mantenga” (Can. 280).
  3. Attualmente in Italia si sta avviando un’intensa riflessione sulle comunità presbiterali, si presentano molto interessanti le considerazioni espresse in un documento promosso dalla Commissione presbiterale della Lombardia e pubblicato in ampi stralci su Settimana[3]; la diocesi di Verona ha già pubblicato delle linee guida per la vita fraterna del Presbiterio, con richiami forti all’opportunità di avviare forme di vita comunitaria tra presbiteri; altresì risulta  utile la lettura di un articolo di don Luca Bressan comparso sulla rivista Vocazioni a proposito della figura del prete in rapido cambiamento.[4] Più modestamente nella nostra Diocesi possiamo elencare alcune incipienti forme di vita comunitaria fra presbiteri diocesani: il parroco ed i vicari parrocchiali della Cattedrale di Tempio; il parroco ed il collaboratore parrocchiale di Viddalba; il parroco ed un vicario parrocchiale di S. Maria Maddalena nella omonima isola, con un’attenzione particolare alla fraternità sacerdotale allargata ai presbiteri dell’intera isola e significata dal pranzo del giovedì, occasione per stare insieme, condividere il pasto, discutere e programmare gli impegni pastorali settimanali. Nel passato abbiamo avuto l’esperienza di Mons. Carlo Urru con don Domenico Degortes, don Salvatore Vico e don Mario Cassari a Tempio, don Antonio Addis, don Ignazio Demuro e don Tonino Cau ad Olbia, don Antonio Pinna, don Umberto Deriu e don Giampaolo Raffatellu a Perfugas, don Francesco Tamponi e don Giampaolo Raffatellu a San Pietro delle Immagini, dott. Domenico Luciano, don Salvatore Maciocco, don Nanni Columbano in Seminario. Forse anche altre che mi sfuggono…
  4. Alcune osservazioni che possono stimolare una riflessione da parte del nostro presbiterio:
    • Il Direttorio ricorda:
      1. Vivere e coltivare mature e profonde amicizie sacerdotali è fonte di serenità, sostegno ed aiuto per il proprio ministero. La fraternità sacerdotale è memoria esistenziale di Cristo, testimonianza di comunione ecclesiale.
      2. Specialmente la vita comune combatte la solitudine del prete…
      3. Aiuta a superare la mentalità individualistica, vero clima culturale nei quali anche i preti sono immersi…
      4. Tra i diversi accorgimenti per la fecondità della vita comunitaria presbiterale ha un rilievo tutto particolare la condivisione della preghiera liturgica, vissuta senza improprie imitazioni della vita religiosa…
      5. Si raccomanda la vita comune tra parroco e vicari parrocchiali, laddove è possibile, nella stessa casa parrocchiale…
      6. Si raccomanda la vita comune tra parroci viciniori laddove le circostanze lo consentono…
    • L’articolo di Bressan offre alcune provocazioni:
      1. La figura del presbitero affronta un mutamento significativo, pur tuttavia mostra una notevole capacità di tenuta presso l’opinione pubblica e la società italiana in generale (carità, educazione, etc)…
      2. Il parroco continua ad essere la “figura tipo” del prete diocesano, pur con tutti gli ‘aggiornamenti’ del tempo. La maggior parte dei parroci ha ‘solo’ questo incarico; al Nord si diventa parroci molto più tardi rispetto al Sud Italia; il ministero di parroco è capace di dare identità e consistenza al singolo prete…
      3. Nonostante siano mutate molte circostanze ambientali e culturali i preti mantengono ancora chiara la loro identità presbiterale il cui tratto qualificante sembra essere l’intenso rapporto con la gente in virtù della promozione di un ‘Cristianesimo popolare’. Con i laici si ha un rapporto ambivalente, da una parte si teorizza un loro ruolo di corresponsabilità, dall’altra si pratica un’esclusione degli stessi da collaborazioni per servizi importanti.
      4. Per quanto riguarda i rapporti col presbiterio e nel presbiterio si nota che essi sono vissuti specialmente su canali affettivi, quindi si discute e si condividono decisioni pastorali più con i preti amici che con il presbiterio diocesano o locale.
      5. Per quanto riguarda il ménage familiare del prete possiamo dire che il 25% dei presbiteri diocesani vive con un parente o con una domestica; il 40% vive da solo e si avvale di collaborazioni occasionali, a volte regolarizzate e retribuite, più spesso basate sul volontariato; in forma minoritaria esistono piccole comunità presbiterali.
      6. Emerge chiaramente che un seminarista su tre vorrebbe da prete vivere in una comunità sacerdotale… pur con evidenti contraddizioni (desiderio/paura; affidamento/scelta)…
      7. Da notarsi un certo cambiamento di rotta tra i preti diocesani. Oggi la maggior parte (72%) afferma di trovare sostegno più nei parroci viciniori che nei parrocchiani, a differenza del passato dove le proporzioni erano invertite.
      8. La dimensione cristologica del proprio ministero è molto forte ed è percepita come irrinunciabile punto di riferimento e criterio ermeneutico della identità presbiterale, mentre la dimensione ecclesiologica ed il risvolto ecclesiale sembra un po’ in ombra… insomma il prete si interpreta più facilmente come un “io” e poco come un “noi”.   
      9. “Tutti noi veniamo da una concezione e da una formazione individualistica dell’Ordine dovute all’occultamento del Presbiterio fin dal secolo IV. Una solitudine esistenziale e pastorale che oggi è in parte conseguenza di una limitata concezione sacramentale. L’esodo richiesto è la conversione e l’attuazione di un modello ecclesiologico comunionale–missionario e della sua ricaduta nella vita del prete”.[5] Quindi mai possiamo disgiungere da un quadro ecclesiologico più ampio possibili scelte per la vita presbiterale.
      10. Sta sempre più entrando in crisi il modello presbiterale “del fare”, del parlare sempre della fede degli altri senza mai parlare della propria, degli incontri istituzionali nel presbiterio, luogo teologico della fraternità sacramentale ma non luogo esaustivo…
  5. Quali riflessioni possiamo condurre come presbiteri di Tempio-Ampurias? Cosa concretamente proporre per la nostra Chiesa diocesana? Quali esperienze poter avviare?

A cura di don Paolo Pala


[1] Cfr. BENEDETTO XVI, Udienza generale del Mercoledì (17 ottobre 2007). Riportiamo brevemente le parole del Pontefice: “Cari fratelli e sorelle, questa mattina vi invito a riflettere su sant’Eusebio di Vercelli, il primo Vescovo dell’Italia settentrionale di cui abbiamo notizie sicure. Nato in Sardegna all’inizio del IV secolo, ancora in tenera età si trasferì a Roma con la sua famiglia. Più tardi venne istituito lettore: entrò così a far parte del clero dell’Urbe, in un tempo in cui la Chiesa era gravemente provata dall’eresia ariana. La grande stima che crebbe attorno a Eusebio spiega la sua elezione nel 345 alla cattedra episcopale di Vercelli. Il nuovo Vescovo iniziò subito un’intensa opera di evangelizzazione in un territorio ancora in gran parte pagano, specialmente nelle zone rurali. Ispirato da sant’Atanasio – che aveva scritto la Vita di sant’Antonio, iniziatore del monachesimo in Oriente –, fondò a Vercelli una comunità sacerdotale, simile a una comunità monastica. Questo cenobio diede al clero dell’Italia settentrionale una significativa impronta di santità apostolica e suscitò figure di Vescovi importanti, come Limenio e Onorato, successori di Eusebio a Vercelli, Gaudenzio a Novara, Esuperanzio a Tortona, Eustasio ad Aosta, Eulogio a Ivrea, Massimo a Torino, tutti venerati dalla Chiesa come Santi”.

[2] 37. Il profondo ed ecclesiale senso del presbiterio non solo non impedisce, ma agevola le responsabilità personali di ogni presbitero nell’espletamento del ministero particolare affidatogli dal Vescovo. La capacità di coltivare e vivere mature e profonde amicizie sacerdotali si rivela fonte di serenità e di gioia nell’esercizio del ministero, sostegno decisivo nelle difficoltà ed aiuto prezioso per l’incremento della carità pastorale, che il presbitero deve esercitare in modo particolare proprio verso quei confratelli in difficoltà che hanno bisogno di comprensione, aiuto e sostegno. La fraternità sacerdotale, espressione della legge della carità, lungi dal ridursi ad un semplice sentimento, diventa per i presbiteri una esistenziale memoria di Cristo ed una testimonianza apostolica di comunione ecclesiale.

38. Una manifestazione di questa comunione è anche la vita comune da sempre favorita dalla Chiesa, di recente caldeggiata dagli stessi documenti del Concilio Ecumenico Vaticano II e del Magistero successivo] ed applicata positivamente in non poche diocesi. «La vita comune esprime un aiuto che Cristo dà alla nostra esistenza, chiamandoci, attraverso la presenza dei fratelli, ad una configurazione sempre più profonda alla sua persona. Vivere con altri significa accettare la necessità della propria continua conversione e soprattutto scoprire la bellezza di tale cammino, la gioia dell’umiltà, della penitenza, ma anche della conversione, del perdono vicendevole, del mutuo sostegno. Ecce quam bonum et quam iucundum habitare fratres in unum (Sal 133,1)».

Per affrontare uno dei problemi odierni più importanti della vita sacerdotale, cioè, la solitudine del prete, «non si raccomanderà mai abbastanza ai sacerdoti una certa loro vita comune tutta tesa al ministero propriamente spirituale; la pratica di incontri frequenti con fraterni scambi di idee, di consigli e di esperienza tra confratelli; l’impulso alle associazioni che favoriscono la santità sacerdotale».

39. Tra le diverse forme di vita comune (casa, comunità di mensa, ecc.) si deve ritenere come sovreminente il partecipare comunitariamente alla preghiera liturgica. Le diverse modalità devono essere favorite secondo le possibilità e le convenienze pratiche, senza necessariamente ricalcare, pur lodevoli, modelli propri della vita religiosa. In modo particolare sono da lodare quelle associazioni che favoriscono la fraternità sacerdotale, la santità nell’esercizio del ministero, la comunione col Vescovo e con tutta la Chiesa.

Tenuto conto dell’importanza che i sacerdoti vivano nei dintorni dove abita la gente alla quale servono, si auspica che i parroci siano disponibili a favorire la vita comune nella casa parrocchiale con i loro vicari, stimandoli effettivamente come loro cooperatori e partecipi della sollecitudine pastorale; da parte loro, i vicari, per costruire la comunione sacerdotale, debbono riconoscere e rispettare l’autorità del parroco. Nei casi dove non ci sia più che un sacerdote in una parrocchia, si consiglia vivamente la possibilità di una vita comune con altri sacerdoti di parrocchie limitrofe.

In molti luoghi, l’esperienza di questa vita comune è stata assai positiva perché ha rappresentato un vero aiuto per il sacerdote: si crea un ambiente di famiglia, si può convenientemente avere – ottenuto il permesso dell’Ordinario – una cappella con il Santissimo Sacramento, si può pregare insieme, ecc. Inoltre, come risulta dall’esperienza e dall’insegnamento dei santi, «nessuno può assumere la forza rigenerante della vita comune senza la preghiera […] senza una vita sacramentale vissuta con fedeltà. Se non si entra nel dialogo eterno che il Figlio intrattiene col Padre nello Spirito Santo nessuna autentica vita comune è possibile. Occorre stare con Gesù per poter stare con gli altri». Sono molti i casi di sacerdoti che hanno trovato nell’adozione di opportune forme di vita comunitaria un importante aiuto sia per le loro esigenze personali che per l’esercizio del loro ministero pastorale.

40. La vita comune è immagine di quella apostolica vivendi forma di Gesù con i suoi apostoli. Con il dono del sacro celibato per il Regno dei Cieli, il Signore ci ha fatto diventare in modo speciale membri della sua famiglia. In una società segnata fortemente dall’individualismo, il sacerdote ha bisogno di un rapporto personale più profondo e di uno spazio vitale caratterizzato dall’amicizia fraterna dove possa vivere come cristiano e sacerdote: «i momenti di preghiera e di studio in comune, la condivisione delle esigenze della vita e del lavoro sacerdotale sono una parte necessaria della vostra vita».

Così, in questa atmosfera di aiuto reciproco, il sacerdote trova il terreno adatto per perseverare nella vocazione di servizio alla Chiesa: «nella compagnia di Cristo e dei fratelli ciascun sacerdote può trovare le energie necessarie per prendersi cura degli uomini, per farsi carico dei bisogni spirituali e materiali che incontra, per insegnare con parole sempre nuove, dettate dall’amore, le verità eterne della fede di cui hanno sete anche i nostri contemporanei». Nella preghiera sacerdotale dell’ultima Cena, Gesù ha pregato per l’unità dei suoi discepoli: «Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola» (Gv 17,21). Ogni comunione nella Chiesa «deriva dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo». I sacerdoti siano convinti che la loro comunione fraterna, specialmente nella vita comune, costituisce una testimonianza, secondo quanto il Signore Gesù ha precisato nella sua preghiera al Padre: i discepoli siano una cosa sola perché il mondo «creda che tu mi hai mandato» (Gv 17,21) e sappia «che li hai amati come hai amato me» (Gv 17,23). «Gesù chiede che la comunità sacerdotale sia riflesso e partecipazione della comunione trinitaria: quale sublime ideale!».

[3] Cfr. CPR della Lombardia in Settimana 8 (2001) 8–9.

[4] Cfr. L. BRESSAN,  Essere preti oggi, in Vocazioni  1 (2010) 26-36.

[5] Cfr. Cons. presbiterale della Lombardia, cit.