S©quola… e dintorni
Vertice indiscusso della lista nera, la Sardegna fa i conti con un tasso di dispersione scolastica “pauroso”. Le statistiche non lasciano scampo: il 33,3% degli studenti sardi abbandona la scuola. È così che conquistiamo il triste primato, e dopo di noi si colloca la Campania con il 29,2%. 6.000 giovanissimi sardi decidono di non andare più a scuola, ovvero un giovane su tre abbandona le aule scolastiche e non si diploma.
Un triste record seguito da un altro primato che deriva dai risultati delle prove Invalsi: a braccetto con la Campania e la Sicilia deteniamo la percentuale più elevata di ragazzi che pur raggiungendo il diploma, non hanno acquisito competenze fondamentali o addirittura sono insufficienti per agire autonomamente e consapevolmente nella società in cui viviamo. Giovani che non sanno come affrontare un’elementare operazione bancaria o che hanno ottenuto al massimo il livello 2 in italiano e matematica.
La fotografia sul panorama isolano dell’istruzione non è consolante. Si chiamano Neet, i giovani che non studiano, non si formano e non lavorano, acronimo inglese che sta per Not in Education, Employment or Training: un fenomeno allarmante e in crescita tanto che qualcuno inizia a definirlo mondo della “generazione perduta”. Un potenziale umano sprecato che costa molto alla nostra società dal punto di vista economico e sociale: perché se è vero che i giovani sono la componente necessaria per produrre benessere nel sistema Paese, la nostra è una disastrosa inversione di tendenza.
E se è vero che non tutti possiamo essere laureati o ambire ad attività professionali di altissimo livello, è altrettanto vero che l’istruzione aiuta a combattere quelle che sono le diversità economiche e sociali, e a ridurre dunque la povertà e l’ignoranza. Chi studia può fare impresa in modo migliore, la conoscenza migliora lo stile di vita, “la conoscenza conduce all’unità – scriveva Socrate – l’ignoranza conduce alla dispersione”.
Difficile analizzare il perché di tale dispersione scolastica, e di chi sia la responsabilità: la scuola, la famiglia, il potere informativo ma non formativo di internet? C’è solo un unico dato di fatto: i nostri giovani, seppur inconsapevolmente, scelgono volutamente l’ignoranza. E il primato sarebbe meno amaro se chi abbandona, lo facesse per scegliere la formazione e accrescere così le potenzialità di lavoro. Invece no. I Neet sono l’alta percentuale: trascorrono il tempo per strada, che è sinonimo del fare nulla, in attesa passiva di lavoro e della stagione estiva, con il rischio di entrare in giri pericolosi.
È necessario dunque, più che mai, che famiglia e ragazzi capiscano che lo studio è un lavoro e non un percorso fine a sé stesso. Nello studio c’è spirito di sacrificio, c’è impegno, c’è perseveranza. Lo studio va’ a formare l’uomo del domani. Il genitore dunque gioca una partita importante nel percorso scolastico del proprio figlio.
È noto, infatti, in base a studi approfonditi, che il “ragazzo di una famiglia tradizionalmente intellettuale supera più facilmente il processo di adattamento psicofisico: entrando la prima volta in classe ha parecchi punti di vantaggio sugli altri scolari, ha un’ambientazione già acquisita per le abitudini famigliari. Così, ad esempio, il figlio di un operaio di città soffre meno entrando in fabbrica di un ragazzo figlio di contadini”.
Dunque lo studio è crescita e formazione, a prescindere dal fatto che quel diploma poi permetterà o meno di ottenere quel lavoro: il bagaglio culturale non potrà mai essere ignorato o cancellato.
Primi nella lista di chi decide di non studiare sono i “bocciati”, poi i drop out, ovvero i giovani che si ritirano prematuramente dalla scuola e, pur avendo grandi capacità intellettive, mancano di emotività e di valori di natura sociale.
Se i preposti si muovono per cercare di tamponare la dispersione con progetti di formazione e di inclusione, noi vogliamo stimolare il dibattito in seno alla famiglia perché, si sa, essa è quel nucleo originario che incide sul percorso, la crescita e le scelte dell’individuo.
Se un tempo non si studiava perché in ambito familiare c’erano condizioni economiche di disagio e povertà, oggi la situazione cambia. Ci sono nuove forme di disagio che incidono sulla formazione dei figli: le divisioni, la difficoltà nei rapporti tra genitore e figlio, i cambiamenti culturali che spingono il genitore ad appoggiare quelli che purtroppo i giovanissimi considerano valori dominanti: il successo, il denaro, la visibilità a costo umano “zero”.
E allora proviamo, davanti ad una bocciatura, a dire a nostro figlio: “Dai, provaci ancora”, proviamo a dire: “Ce la puoi fare!”, bandendo ogni forma di rassegnata arrendevolezza. La formazione, quella seria, si acquisisce specie nella scuola, in ogni sua forma: tutto il resto è informazione e non è sufficiente per lo sviluppo umano e professionale dei nostri giovani.
Penelope